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Articolo a cura di Fabio Picchi – Mordere una mela e sentirne il sapore che, esplodendo in bocca, attraverso le asprigne attitudini scatena brividi di una piacevolezza redentrice è buona cosa.

Infatti non è mai capitato che qualcuno si sia sentito in colpa mangiando una mela, anzi. E se ci pensiamo bene, questo fra l’altro ci deve convincere della nostra comune “labilità”: la cacciata del Paradiso non dovrebbe valere ben di più del togliersi un medico di torno. Invece niente, ne mangiamo poche, ma quando le portiamo alla bocca o ancor peggio le sbucciamo ci sentiamo felici di questa piccola e quotidiana battaglia contro il male.

D’accordo, saremo pure labili, ma in ogni caso facciamo bene a mangiare frutta ad un solo patto però: deve saper di qualcosa. Dunque che le albicocche sappiano di se stesse e che le pesce non facciano le pigre complici di umane avidità. Se gialle e sode e non ancora troppo mature, non vi lamentate, sbucciatele e spezzettatele dentro un bicchiere con un buon aleatico dell’Isola d’Elba, ascoltando il rombo del Maestrale che a fine agosto, si sa, biancheggia il mare.

Se bianche e mature, “sbrodolatevi” la bocca, le mani e tutti gli avambracci. Poi lavatevi le mani e il viso con acqua fredda. Subito dopo vi sentirete senza colpe e con l’anima allegra.

Prendete nei giorni a seguire un amico e camminate per un paio d’ore. Raggiunta che avrete l’ombra di un fico, mangiatene i suoi sensuali frutti. Immersi nel profumo, avrete a portata di mano il senso della vita e dell’amicizia. Senza ascoltare demoniaci consigli, raccoglietene un certo quantitativo in un paniere o, se sprovvisti, usate un largo fazzoletto che accoccherete a mo’ di fagotto.

Dopo di che raggiungete – come mi è capitato di recente – un terzo amico, sapendo che quest’ultimo, fermo su una carrozzella, si muove come un matto fra i suoi maiali bradi, ai quali nelle giornate d’inverno dona, con un imponente fischio di richiamo, del favino che lui coltiva insieme alla figlia. Lo Zoppo, così lo abbiamo da sempre chiamato dopo quel maledetto incidente e lui puntuale ci risponde con un “magari”, nasconde per le grandi occasioni (cioè quando noi lo minacciamo, ridendo di cuore, di prenderlo a grucciate sapendo da buoni fiorentini che “la morte la c’ha a trovar vivi!!!”) un mezzo nero salame toscano con cui facciamo quel che va fatto, cioè una merenda, con fichi, salame e del buon pane quotidiano che sulla sua tavola non manca mai.

Sappiate che, se quella fosse la mia ultima cena, sarei dunque felice di salire da mio padre e disturbarlo per dirgli grazie della vita, grazie dell’allegria, grazie dei libri e del cinema, grazie del teatro e di molti insegnamenti fra cui quello più caro: ama! Ama tutto anche il dolore perché non sai dove ti porterà.

Ama le ciliegie e le donne, l’una tira l’altra nella mia memoria di quando incontrai mia moglie, dimagrendo per amore me ne cibavo doppiamente soddisfatto.

Ama il fico d’India e il melograno, porta pruni il primo e fortuna il secondo, ma sono entrambi buonissimi. Ama le gelse fresche che ti ricorderanno i migliori gelati della tua vita. Ama le carrube perché, se avrai un’improvvisa fame, ti salveranno da un picco glicemico su un sentiero cretese…

Ama la nespole e le sue orientali memorie, ama la frutta antica che sa di frutta, ama il sapore e il profumo, ama mordere grappoli d’uva reggendoli con le mani, ama dunque anche le macchie che ti farai sulle camicie, ama le castagne se son tali e non coltivate con chimiche avidità, amale bollite, bruciate, secche e polverizzate in dolci farine per castagnacci arricchiti di uva passa e pinoli che a Sesto fiorentino chiamavano al tempo del Collodi “pinocchi”.

Dunque non fate i burattini e fate i bravi bambini. Un cavolo a merenda è un sollucchero, se condito di buon olio, limone, amore e libertà.