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A cura della Prof.ssa Virginia Boccardi e Patrizia Mecocci – Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un miglioramento sostanziale delle condizioni socio-sanitarie e ad un cambiamento demografico, come mai avvenuto prima, con un grande aumento della sopravvivenza.

La popolazione di oggi presenta un minor numero di nascite ed è sempre più anziana: in buona parte costituita da individui in buona salute, cosiddetti fit, che si accompagnano comunque ad una quota di anziani considerati fragili, caratterizzati da una fisiologia, ancora tutta da scoprire, diversa da quella dell’adulto, con risposte biologiche peculiari. Attualmente l’aspettativa di vita media stimata è di circa 80 anni. Ciò giustifica una nuova classificazione della popolazione anziana in sottogruppi: i giovani-anziani, o young-old, di età compresa tra 65 e 75 anni, gli anziani propriamente detti, o old-old, tra 75 e 85 anni, ed i grandi anziani, o oldest-old, con età superiore a 85 anni.

Questi cambiamenti hanno portato progressivamente a una profonda modificazione dello scenario di cura. Se, infatti, da una parte la popolazione è divenuta più longeva, dall’altra l’invecchiamento ha portato a un progressivo incremento delle malattie ad andamento cronico.

Il modello dell’individuo malato che più comunemente contraddistingue il nostro secolo non è tanto l’individuo affetto da un’unica e definita malattia, acuta e risolvibile nel breve-medio termine, ma piuttosto un malato cronico, per lo più affetto da diverse patologie incidenti contemporaneamente.

Il nuovo fenotipo clinico così risultante è determinato e influenzato non solo da fattori biologici ma anche da fattori non biologici, quali lo stato sociale, familiare, economico, ambientale e molti altri. Essi interagiscono fra di loro in maniera dinamica a delineare una nuova tipologia di assistito: il malato complesso. La presenza contemporanea di più malattie è ciò che caratterizza fondamentalmente la geriatria. L’insidiosità dell’esordio, associata o meno a una lenta evoluzione, è caratteristica di molte malattie, ma può anche essere dovuta, e lo è abbastanza di frequente, alla tendenza dell’anziano ad accettare una diminuzione delle proprie capacità fisiche come facente parte del processo d’invecchiamento e non come problema da sottoporre tempestivamente all’attenzione del medico. Tale comportamento viene favorito da una visione negativa generalizzata talvolta condivisa anche da medici e operatori sanitari, i quali ritengono che molti disturbi dell’anziano siano più la conseguenza dell’età che non l’espressione di possibili malattie, pensiero appartenente all’ageismo.

Questa condizione può associarsi sia al rischio di interventi frammentati, focalizzati più sul trattamento della singola malattia che sulla gestione del malato nella sua interezza, sia, soprattutto in mancanza di un’adeguata comunicazione tra i vari specialisti, o semplicemente a causa della mancanza di una documentazione clinica accurata, in una gestione del malato non coordinata, e, quindi, poco efficiente. Tuttavia, l’anziano, se da una parte spesso si presenta come un malato complesso, da un altro punto di vista rappresenta l’esempio più grande di adattamento, nonostante tutti i cambiamenti fisici e psico-affettivi a cui è sottoposto. Il pensionamento con la perdita di ruolo attivo, le minori occasioni d’interazione sociale per la perdita di coetanei o del congiunto, danno luogo molto spesso ad una situazione di solitudine o di vero e proprio isolamento sociale.

La malattia può, più facilmente che in altre età, contribuire a determinare o aumentare l’insicurezza individuale o a incidere sulla sua autostima favorendo l’ansia o/e la depressione, condizione quest’ultima estremamente frequente nella terza età. Eppure l’anziano si adatta e sopravvive a tali cambiamenti radicali. Certo che, quando si parla della Terza Età, capita anche curiosamente di trovare due immagini completamente diverse dell’anziano: felice, saggio e portatore di buoni consigli nel primo caso; triste, emarginato, quasi d’impaccio nel secondo. Far parte della prima immagine resta l’aspirazione di tutti.

Numerosi sono gli studi effettuati sui soggetti ultracentenari per scoprire la chiave della longevità in buona salute. Sicuramente la genetica gioca un ruolo fondamentale, ma sempre più peso è oggi attribuito ai fattori ambientali e allo stile di vita, variabili su cui noi possiamo intervenire per una prevenzione consapevole. Ci sono grandi anziani che con maggiore o minore rapidità devono fare i conti con le patologie croniche, i più fortunati invece, definiti escapers vivono mantenendo buone condizioni di salute anche fino a 100 anni. Come deve quindi comportarsi la società moderna nei confronti degli anziani? Alle interpretazioni che negano loro il diritto di svolgere un ruolo specifico nella comunità si contrappone fortunatamente un sentimento nuovo che sta lentamente maturando, all’interno della nostra società e perfino nelle nuove generazioni, che porta ad una diversa considerazione del passato.

Oggi, grazie al benessere generale una grossa fetta di popolazione anziana vive nel pieno delle proprie forze, spesso ben inserita nella realtà quotidiana, del lavoro e della famiglia, tanto che la sua esperienza può risultare di fondamentale sostegno allo sviluppo della società. A fronte di una possibile riduzione nel prossimo futuro del numero di soggetti anziani fragili grazie ad una maggiore prevenzione e cultura sul benessere psicofisico che deve condurre all’età più avanzata, non possiamo non sottolineare la stringente necessità di migliorare le conoscenze e l’approccio alla fragilità per garantire una vita dignitosa, anche in presenza di disabilità e cronicità, con interventi assistenziali e terapeutici altamente personalizzati.