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Basta guardarsi attorno per rendersi conto della quantità di oggetti in plastica che usiamo ogni giorno
Sappiamo da anni che la plastica è un problema, eppure non riusciamo farne a meno, ed ecco che i nostri mari (ma non solo) ne vengono invasi. Non va demonizzata la plastica, ma l’uso che siamo abituati a farne.
Dal 1950 a oggi, le industrie di tutto il mondo hanno sfornato 8,3 miliardi di tonnellate di plastica (Science Advances, 2017). Dopo cemento e acciaio, infatti, è proprio questo il materiale più fabbricato dall’uomo. Dato il ritmo con cui la plastica viene prodotta e usata e il fatto che se ne ricicla solo il 15% a livello globale, il risultato è che ogni anno 8 milioni di tonnellate di plastica si riversano negli oceani.

Plastica nell’acqua del rubinetto e negli animali marini
Le conseguenze nella nostra vita quotidiana sono evidenti: l’83% dei campioni di acqua di rubinetto testati nel corso di un’inchiesta condotta Orb Media sono risultati contaminati da materiali plastici. Non solo. La plastica viene ingerita dalla maggior parte degli animali marini. Una ricerca pubblicata nel 2015, per esempio, ha rilevato che fino al 90% degli uccelli marini di tutto il mondo ha residui di plastica nelle viscere.

Le conseguenze sulla salute sono ancora tutte da esplorare
La plastica è ormai entrata inesorabilmente nella catena alimentare ed è nei nostri organismi, perché si trova nel cibo che mangiamo e nell’acqua che beviamo. Numerose agenzie sanitarie, ricercatori e perfino alcune industrie hanno allertato sulla gravità del problema, che potrebbe essere responsabile della pubertà precoce, della resistenza all’insulina e di determinati tumori. Uno studio condotto dai ricercatori dell’Università di Medicina di Vienna e dell’Agenzia per l’ambiente austriaca ha mostrato per la prima volta la presenza di microplastiche (frammenti di plastica con un diametro compreso tra i 330 micrometri e i 5 millimetri) nelle feci umane. Sono state individuate nove diverse materie plastiche, tra le quali le più comuni sono polipropilene e polietilene tereftalato. Gli studiosi austriaci hanno stimato che oltre il 50% della popolazione mondiale potrebbe avere microplastiche nelle feci. Si tratta di un campo di studio emergente e non si sa ancora molto delle microplastiche e del loro impatto. Molte malattie gastrointestinali potrebbero proprio essere collegate alla presenza di microplastiche nell’intestino. Le particelle di plastica potrebbero infatti indebolire le difese immunitarie dell’intestino o intossicare l’organismo con gli agenti patogeni e le sostanze chimiche tossiche che contengono. Le microplastiche più piccole sono in grado di entrare nel flusso sanguigno, nel sistema linfatico e possono persino raggiungere il fegato: si renderanno necessarie ulteriori indagini per capire cosa questo significhi per la nostra salute.

La soluzione è solo ridurre drasticamente la plastica e proibire i monouso
Per impedire che le microplastiche mettano ulteriormente a rischio la nostra salute e quella dell’ambiente non abbiamo che una soluzione: interrompere l’immissione di plastica in mare e ridurne drasticamente la produzione. Per invertire la rotta, l’unica soluzione è cambiare radicalmente le nostre abitudini, poiché basta guardarsi attorno – a casa, in ufficio o in qualsiasi luogo pubblico – per rendersi conto della quantità di oggetti prodotti in questo materiale. A questo punto, è necessaria una riflessione. Sappiamo da anni che la plastica è un problema. E allora perché nei bar si continuano a regalare cannucce di plastica monouso, perché i gadget regalo nei negozi sono in plastica? Perché alle feste dei bambini si usano i palloncini? Perché i distributori di caffè hanno bicchierini in plastica? Perché non abbiamo consapevolezza sufficiente e perché non è stata fatta alcuna politica ragionevole sul prezzo della plastica. È evidente che quel prezzo non tiene conto dei costi ambientali che vengono creati e che rimangono in capo a tutti i cittadini.

La plastica costa pochissimo, viene ‘regalata’ ed ecco che i nostri mari (ma non solo) ne vengono invasi. Non va demonizzata la plastica, ma l’uso che siamo abituati a farne. Se la produzione avvenisse a ‘circuito chiuso’, ovvero se sapessimo per quale scopo vengono realizzati gli oggetti in plastica e soprattutto dove vanno a finire dopo l’uso, come in campo medico, avremmo tutto sotto controllo. Ma ora che la frittata è fatta dovremmo vietare la plastica per tutte le filiere ‘aperte’. Il prezzo andrebbe rivisto al rialzo per includere i costi ambientali: se fosse più cara sarebbe anche meno appetibile su larga scala. In questo senso, la risoluzione dell’Unione Europea che mette al bando la plastica monouso è un bel passo avanti.

Plasticless, il contributo di LifeGate attraverso i Seabin
Sono convinto che potremo cambiare in meglio, nel futuro, perché a differenza del problema del riscaldamento globale (derivante, proprio come quello dell’inquinamento da materie plastiche, dall’utilizzo dei combustibili fossili), questo è tangibile e facilmente comunicabile. Una volta preso atto del problema, bisogna agire. I progetti in corso sono moltissimi. Tra questi, LifeGate promuove Plasticless, un contributo alla soluzione del problema focalizzato sull’inquinamento da plastica nei nostri mari tramite l’installazione dei SeaBin, cestini “mangiarifiuti” che sono già operativi in alcuni porti italiani (Marina di Varazze, Marina dei Cesari, ecc.), grazie al contributo di aziende come Whirlpool e Volvo. Si tratta di un dispositivo molto efficiente in grado di filtrare l’acqua e raccogliere fino a 500 kg di macro e microplastiche (fino a 2 mm e microfibre fino a 0,3 mm). Il suo funzionamento è semplice ma bisogna installarlo nel punto giusto, tenendo conto di venti e correnti. Più Seabin riusciremo a installare dentro porti e marine italiane, maggiore sarà il contributo per mantenere il Mare Nostrum il più possibile pulito e sano.