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Questo scritto in ricordo delle ‘Clinicocommedie’ di Tempo Medico, piacevole e istruttiva lettura di tempi passati ma non dimenticati.

Arrivano in due, la figlia giovanissima, magra e con due occhi spiritati che parlano da soli e la madre, bionda ossigenata, grassa, pesante nel camminare e leggermente dispnoica. Hanno entrambe un bel sorriso e comincia l’esposizione dei sintomi della figlia. Risalgono a tre settimane prima e il racconto trasuda di particolari.

“Ho avuto dolore alla patatina… poi qui all’inguine, qui, proprio qui… poi alla schiena dalla parte destra… poi alle gambe… Ero seduta nel banco all’Università… non potevo alzarmi dal dolore… poi sono andata in bagno… poi sono tornata a casa… Poi il dolore è passato… La sera avevo un 38° di febbre e sono salita in macchina ma il dolore mi è ripreso fortissimo… poi non potevo stare seduta… Mi sono messa a piangere… Mi volevano portare all’ospedale… poi è venuta la mamma… poi hanno chiamato il dottore… mi ha battuto dietro la schiena… un dolore fortissimo… avevo la febbre… mi ha dato una cura… Il dolore mi è passato… poi mi è ripreso alle 4 di mattina… poi è andato via, poi è tornato, poi ho fatto una cura e poi un’altra, poi ho fatto l’ecografia e l’analisi del sangue…”

Insomma una sfilza di parole e di concetti. Ho un orologio davanti alla mia scrivania: dopo venti minuti buoni di racconto ancora non avevamo superato i preliminari. E io prendevo appunti senza dire parola, riservandomi i chiarimenti al tempo successivo. Poi la serie dei medici che aveva consultato con i loro referti che si accumulavano sulla scrivania. Dopo aver chiarito alcuni passaggi che hanno impegnato i successivi 15 minuti l’ho sottoposta a visita. Si trattava di lombaggine, una malattia frequente ho spiegato, forse la più comune al mondo che non passa se non dopo qualche settimana qualunque terapia tu metta in atto. Ci vuole pazienza.

“Ma posso andare all’Università?” mi chiede repentina. “Si… certo, penso di sì” rispondo con qualche incertezza balenandomi l’idea che potesse fare qualche facoltà che prevedesse un impegno fisico. “Quale facoltà fai?” le chiedo rapido. “Economia” mi risponde. Forse ho mostrato qualche perplessità nell’espressione facciale perché lei si sente in dovere di precisare “Ma ora faccio medicina o veterinaria” e, questa volta, davanti al mio stupore precisa “sì ho fatto il test l’anno scorso ma sono stata bocciata a tutti e due e sono andata a economia (sospetto che in questa facoltà non esista test di ingresso) e quest’anno l’ho ripetuto ma sono stata di nuovo bocciata ma ho deciso di fare veterinaria.” “Lei è una ragazza a cui piace studiare” dice con un sorriso compiacente la madre che comincia a entrare nel vivo della consultazione. Mi dilungo in qualche altro consiglio, cerco di tranquillizzare la coppia quando vengo interrotto. “Non le ho detto che questo non è che l’ultimo anello di una catena” irrompe la madre. “Catena?” Sono colpito dall’espressione, quale catena? “Si, la mia bambina, che ora ha venti anni, soffre di mal di testa, qua vede” e la tocca sulla nuca e poi sulla testa e poi sulla fronte e poi sugli occhi. “Ma sarà un’altra cosa” accenno timidamente, desideroso di concludere la consultazione che si sta prolungando da oltre un’ora. “Ma non lo so, sa sono sempre dolori.”

A niente valgono le mie spiegazioni e le precisazioni su quante volte, di quanta intensità, del rapporto con una familiarità. Prospetto che si tratti di una cefalea emicranica che niente ha a che vedere con la lombaggine, o almeno credo. Cerco di farle capire che si tratta di un’altra malattia ma lei non cede. “E la ragazza soffre anche di una ciste, lì alla mano” che la ragazza la mostra“ e poi anche di un neo, lì nella guancia” e la ragazza si mette in posa così che io possa vederla bene “e poi ha anche dolore ai piedi.” Questa volta la figlia non può farmi vedere ma annuisce consenziente. “Senta Signora, si rende conto che si tratta di problemi differenti da quello per cui è venuta a consultarmi e che penso sia stato quello che più la preoccupa. Questo che mi sta dicendo… le cose che mi vuol sottoporre richiedono tutte un’attenzione particolare, forse un parere specialistico.” “Questo lo deve dire lei dottore, ma sa dato che siamo qua le dico tutto.” Ho cercato di fare del mio meglio mi è però parso che l’atteggiamento culturale della donna fosse quello con cui si va in un negozio di generi di consumo come gli alimentari, dove si prende dagli scaffali e si butta nel carrello quello di cui si ha bisogno dando un’occhiata alla confezione e facendo un bel sacchetto. Che volete, è un altro segno dei tempi.